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Alle 7 ero già accalcato davanti ai cancelli della Sud. Era il giorno della storia. Per la prima volta la Roma avrebbe disputato una finale della Coppa dei Campioni e, per fortuita coincidenza, proprio dentro le mura amiche dello stadio Olimpico.
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L'anno prima, avevamo conquistato il nostro secondo scudetto: la Roma di Falcao, Di Bartolemei, Pruzzo, Conti, Tancredi...e del Barone Niels. Era la creatura voluta e oculatamente gestita dal presidente indimenticabile Dino Viola, quella delle lotte contro la Juve e i suoi soprusi stile Boniperti. Quella delle sfide con le ruberie dei bianconeri e di Platini. Ma era un altro calcio. La Roma aveva scoperto la zona e con sapiente calma svedese, e con una manciata di campioni, si era già fatta scoprire da mezza Europa e non era più la Rometta di Marchini o di Anzalone e neppure quella di Sacerdoti. L'ing. Viola, tessitore pragmatico di Aulla, aveva rilevato una società a pezzi e l'aveva ricostruita nel corso di un periodo relativamente breve. A quel tempo non c'era il biscione miliardario che sconvolse poi gli equilibri di un calcio mercato che doveva poi fallire, e i soldi si spendevano solo oculatamente. E così, mentre l'Udinese prendeva campioni brasiliani come Zico, la Fiorentina Socrates, il Torino Junior, noi facevamo venire da Porto Alegre uno sconosciuto: tale Paulo Roberto Falcao che ci fece riscoprire l'amore per il calcio.
Ma questo è solo l'antefatto di quel 30 maggio.
Dopo lo scudetto vinto a Genova e festeggiato a Roma, i giallorossi iniziarono la loro avventura europea, comunque considerti outsider di grandi squadre.
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Era un torneo meno complicato della Champions attuale, dove si dovevano affrontare solo le prime classificate d'Europa e non di più.
Con umiltà ma con il gioco, la Roma era arrivata a giocarsi una insperata finalissima dopo un ciclo di incontri che, uno dopo l'altro, le avevano fatto guadagnare questa opportunità e contro il diabolico Liverpool di Rush.
La città era in fermento da tempo: dopo l'anno appena trascorso che aveva riportato il tricolore dopo 42 anni e la splendida cavalcata in coppa Campioni, tutti erano convinti che -anche grazie alla cabala che ci aveva assegnato la finale- il maggior trofeo calcistico europeo, fosse destinato a restare a Roma.
Sappiamo tutti come andò a finire: un gol irregolare (c'era stata carica al portiere) che lanciò i rossi inglesi, il pareggio di Pruzzo con un colpo di testa a palombella, portò le squadre negli spogliatoi in pareggio e a nulla valse uno sterile secondo tempo (con Pruzzo uscito) e neppure i supplementari. I rigori maledetti decretarono la vittoria dei red devil per gli errori di Graziani e Bruno Conti, beniamini della curva ed anche il processo per il rifiuto del 'divino' Falcao di calciare un penalty.
Ma quel lungo giorno, iniziato alle sette del mattino davanti ai cancelli, fu lungo da vivere.
Davvero lungo. La ressa, gli spintoni, il caldo, il non potersi più muovere dalla po
sizione acquisita e totalmente difesa, faceva sì che il tempo passasse più lentamente di quello che doveva. L'apertura dei cancelli era prevista solo nel pomeriggio, giocando alle 21, ma tra urla, strepiti, maledizioni e parolacce, si riuscì ad entrare poco dopo il mezzogiorno, assaltando la curva per guadagnare i 'soliti' posti.
Il gruppo di amici con il quale ero solito andare allo stadio, prese possesso del nostro spicchietto a destra della Sud a metà altezza e, ci accovacciammo leggendo ogni tipo di giornale sportivo, totalmente dedicato all'evento. Come abituati a fare, non mancavano panini e sigarette ma, era tanta la tensione che tutti avevamo perso la fame e la voglia di chiacchierare. Guardavo ogni 3-4 minuti l'orologio per vedere il tempo non passare veloce e, sigaretta dopo sigaretta, cercavo si smorzare la tensione che aleggiava in tutto lo stadio. Poi, arrivarono i temibili supporters del Liverpool. Mezzi nudi e totalmente ubriachi, avvolti nelle loro bandiere e sciarpe rossobianche cantavano a squarciagola le loro litanie che in pochi riuscivano a capire. Ovvio che dalla Sud già piena, gli si rispondeva e li si mandava amichevolmente a fare in culo. Tutto questo per ore ed ore per ammazzare una noia figlia del nervosismo e sempre con il sole in pieno viso.
Poi, calarono le ombre, lo stadio era pieno tranne piccoli spazi divisori tra nord e tevere e nord e monte mario. La sud aveva già dato ed era rimasta senza voce. Entrarono le squadre in campo da sotto il passaggio della Sud. La Roma in divisa bianca e gli inglesi in rosso. Quando vedemmo la capigliatura riccia e la sagoma lungilinea del divino Falcao, la Sud esplose. Fumogeni, centinaia di rotoli di carta igenica lanciati verso il basso, lo sventolio di bandiere, ed un coro immenso riempì ogni angolo dello stadio. Questa si, era finale.
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